A CARLO LEOPARDI - RECANATI
Roma 25 Novembre [1822]
Penry Williams-Vista in lontananza di San Pietro, Roma, 1840 |
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l'altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l'esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo. In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia, e l'essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine, m'abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch'io non sono più buono da niente, non ispero più nulla, voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua. Fa leggere questa lettera al signor Padre, al quale io non so quello che mi scrivessi da Spoleto: perchè dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini ec. i quali s'erano informati dal Cameriere dell'esser mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta ec. ec. E un birbante di prete furbissimo ch'era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la dava a tutti gli altri: ma credetemi che alla mia prima risposta, cambiò tuono tutto d'un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima come tante pecore.
Senti,
Carlo mio, se potessi esser con te, crederei di potere anche vivere,
riprenderei un poco di lena e di coraggio, spererei qualche cosa, e
avrei qualche ora di consolazione. In verità io non ho compagnia
nessuna: ho perduto me stesso; e gli altri che mi circondano non
potranno farmi compagnia in eterno. Scrivimi distesamente e
ragguagliami a parte a parte dello stato dell'animo tuo, intorno al
quale ho molti dubbi che mi straziano. Amami, per Dio. Ho bisogno
d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par
fatto per me: ho trovato il diavolo più brutto assai di quello che
si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco;
gli uomini fanno rabbia e misericordia. Ma tu scrivimi, e amami; e
parlami assai assai di te e degli altri miei. Bacia per me la mano al
signor Padre e alla Mamma, a' quali scriverò quest'altro ordinario,
se ancora saprò scrivere. Salutami Paolina e Luigi e Don Vincenzo.
In tutti i modi faremo animo: e l'assuefazione sottentrerà e
rimedierà ogni cosa. Addio, caro ex carne mea. Addio.
La
lettera al fratello Carlo del 25 novembre 1822 è la seconda che il
nostro Giacomo Leopardi invia da Roma. La prima, indirizzata alla
madre, era stata spedita un paio di giorni prima, all'arrivo presso
il palazzo degli zii Antici: la brevità e l'essenzialità delle
informazioni fornite, tuttavia, fa rassomigliare quest'ultima a
quello che oggi sarebbe un messaggio inviato da un figlio ai propri
genitori per tranquillizzarli (del tipo: «Sono
arrivato, tutto ok, il viaggio è andato bene»), e la allontana
dalla carica emotiva che invece trova una decisa espressione nella
lettera a Carlo.
Giacomo non ama Roma. In una
lettera alla sorella Paolina, datata 3 dicembre 1822, scrive che
«Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le
distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per trovare
chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per
conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini,
invece d'essere spazi che contengano uomini». La Città Eterna
diventa così luogo (o non-luogo?) dell'indifferenza, della noia,
dell'inautenticità delle relazioni sociali, della vuotezza di tutti
quei personaggi che popolano feste e salotti che pure Giacomo
frequenta; tanto che la freddezza di una città così enorme agli
occhi di un abitante della piccola Recanati sembra quasi annullare le
facoltà sensibili ed emotive, e Giacomo, già incapace di provare
meraviglia («ché quando anche io vedessi il Demonio non mi
maraviglierei»), è ridotto «in tutto e per tutto una statua».
Quest'assenza di vita e, di
contro, la necessità profonda di essere toccato nell'emotività,
troveranno sfogo qualche mese più tardi, con le lacrime versate
davanti al sepolcro di Torquato Tasso a Sant'Onofrio: esperienza che
Giacomo racconta in una lettera ancora a Carlo (e che l'Amelio ha
raccontato qui
http://lamelio.blogspot.it/2017/03/impressioni-di-un-itinerario-letterario.html).
Tuttavia, già questa prima espressione dell'epistolario romano offre
una testimonianza precisa di quel desiderio d'amore e di vita che non
ha mai smesso di animare un Giacomo assetato del mondo. Desiderio che
quell'«Amami, per Dio» rivolto a Carlo esprime con i toni di
un'arrabbiata preghiera.
Un poscritto: per un quadro più
completo dell'epistolario come testimonianza dell'esperienza romana
di Giacomo, si consiglia la lettura di L.
Felici, Lettere da Roma
1822-1823,
in Id.,
La luna nel cortile,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 111-140. Occasione per
ricordare il da poco scomparso maestro Lucio Felici.