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Foto di Valentina Leone |
Prima di salutarci, perché non ci saremmo più viste
per diversi mesi, decidemmo di sciogliere una di quelle promesse che avevamo
stretto quando, per caso, ci eravamo trovate tutte a Roma. Era ormai quasi
mezzogiorno e ci affrettavamo lungo la salita di Sant’Onofrio, rimasta la
stessa percorsa da Giacomo Leopardi due secoli fa. La prospettiva confinava la
chiesa nel fondo, stretta sui fianchi dai più recenti palazzi, mentre imprevisti
alcuni scorci, ai lati della strada, lasciavano evadere lo sguardo oltre le
poche foglie di edera resistite al gelo, verso le scale che precipitavano fino
al fiume. Per un momento, avanzando, l’illusione ottica ci aveva fatto temere
di scorgere ancora una volta il cancello chiuso, come se la mente tentasse di ingannarsi
per prevenire una possibile delusione. Invece il cancello della chiesa di
Sant’Onofrio era ancora timidamente dischiuso, forse per scoraggiare gli ultimi
visitatori che come noi accorrevano poco prima dell’orario di chiusura. Fu
bastante questo segno di malcelata accoglienza a scacciare lo spirito di
invettiva, così insolito, che già prendeva piede nell’animo per denunciare le
poche risorse destinate a un sito così importante, per di più un edificio
ecclesiastico, aperto solo un paio di ore al giorno.
L’idea di un Tasso imprigionato nel luogo della sua
sepoltura, dopo i sette anni trascorsi nella cella del Sant’Anna
a Ferrara, così come si era presentata è venuta meno
non appena la facciata della chiesa, vista dai ripidi gradini del sagrato, sembrava
incombere sopra di noi con la sua architettura semplice e pulita. Un non so che
di vago accompagnava i nostri passi diretti all’ingresso della chiesa,
preceduto dalle lapidee parole scritte da Leopardi al fratello Carlo nella
lettera del 20 febbraio 1823: «Venerdì 15 febbraio fui a visitare il sepolcro
del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico
piacere che ho provato in Roma».
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Foto di Valentina Leone
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Davanti a noi, superata la soglia, il rosso e le
foglie d’oro degli affreschi campeggiavano sull’abside, l’altare era imbandito
di un’armonia di colori non pretenziosa e accogliente. Fu naturale deviare
sulla sinistra e guardare in alto, dove un dipinto ovale dal contrastato
chiaroscuro ritraeva il volto maturo di Tasso e parole latine scolpite su una targa
marmorea rammentavano la pietas del
cardinale Bonifazio Bevilacqua, spinto ad onorare l’amato poeta con un epitaffio.
Smarriti per non aver ritrovato la «piccolezza e la nudità» del sepolcro, gli
occhi scivolarono giù lungo il profilo allungato di un tripode e in basso
scorsero la lastra aderente al suolo nell’estremo angolo della chiesa,
schiacciata da uno dei piedi di ferro battuto. La «gran folla di affetti»
suscitata da quella scritta, «Ossa Torquati Tassi», ci colse alla sprovvista non
lasciando un anelito per condividere tra noi quel momento di intenso sentire, tanto
forte era apparso il «contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua
sepoltura».
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Foto di Valentina Leone
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Ecco che l’umiltà evocata da Leopardi, lungi
dall’essere solo relativa alla esigua dimensione della lapide, si spiegava per essere
il sepolcro
humilis, vicino al
terreno, accantonato in un luogo remoto e noncurante del passaggio invadente
dei fedeli e dei turisti. «Ma non si potrebbe anche venire dall’America per
gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti?», risuonava intanto l’eco
della lettera leopardiana. Un viaggio transoceanico all’inizio dell’Ottocento
equivaleva a mesi di navigazione, a un tempo lunghissimo eppure sacrificabile in
cambio di un piacere lungo due minuti. A partire dall’estrema dilatazione
spaziale dal continente americano all’Europa contrapposta a un minimo spostamento
di lancette si andava componendo, ora non più astratta, l’opposizione binaria
del pensiero leopardiano: «molti»/ «io»; «magnificenza»/ «piccolezza» e infine
«falso»/ «vero».
All’esterno, complice
il silenzio del chiostro, ritrovammo la profonda quiete agognata da Tasso dopo
una vita di erranza sulla vetta del colle gianicolense inondato di luce, lì
dove la folta schiera di alberi annosi si confondeva nell’orizzonte tra gli
spruzzi d’acqua della fontana centrale. E noi, con il volto sfiorato da un
sorriso, dominavamo con lo sguardo l’immensa distesa della città di Roma.
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Foto di Valentina Leone |