«Perché la poesia non è
il fiore sul vulcano», affermava convinto Giorgio Bassani. Ma il cratere
vesuviano dei primi anni dell’Ottocento, quello che Leopardi scrutava dalla sua
finestra, aveva intorno un deserto. Un fiore giallo sulle pendici di un
vulcano, allora, poteva a pieno titolo diventare un insieme di versi
devastante, può, adesso, scatenare poesia. Un’espressione del genere, con
parole da scuola dell’infanzia come «fiore» e «giallo», se pronunciata in un
contesto ufficiale, provocherebbe reazioni contrastanti. In realtà contiene
tutte le contraddizioni che la poesia stessa porta inevitabilmente ed
etimologicamente con sé. «Inventare», nella radice del termine poesia, spesso è
cosa fattibile solo a seguito di un impulso. Ma il fiore giallo è un
accostamento di due termini che anche un bambino può facilmente produrre. Dopo la
divagazione alimentata dall’incipit
provocatorio, è necessario squarciare il velo di Maya schopenhaueriano e
svelare il segreto di Pulcinella (geograficamente si resta in zona) sulla
denominazione scientifica del fiore di cui si dibatte.
La Ginestra, poesia (e pianta) tanto cara a Leopardi, invade le
montagne italiane dando quel tocco di colore giallognolo sempre attraente per
gli occhi, risale al 1836 quando da Villa Ferrigni, a Torre del Greco, si godeva
di un panorama diverso rispetto ad oggi. Il 2017 dà ragione a Bassani, ma il
1836 gli dà torto. La conurbazione che ha di fatto creato un’unica grande città
metropolitana tra Torre Annunziata e Napoli, includendo Torre del Greco ed
eliminando le campagne, ha cancellato ogni parvenza di natura. Il Vesuvio,
però, domina ancora, seppur assediato, scolorito. Le ginestre spiccano di meno,
ma restano presenti negli sparuti spazi lasciati alla terra – aiuole incolte - tra
i palazzoni che si arrampicano sin sulle pendici di quel vulcano che costò la
vita a Plinio il Vecchio. Giacomo Leopardi, dalla terrazza della sua camera
gentilmente offertagli dal patriota Antonio Ranieri, nei suoi endecasillabi e
settenari della Ginestra prova a dare
un messaggio preciso – in trecentodiciassette versi – parlando di un paesaggio
che oggi non si riconosce più in quelle evocazioni. L’unica cosa che si
conferma è il profumo di un fiore giallo, che talvolta – timidamente – spunta e
si può respirare ai margini della ferrovia (la prima in Italia, all’epoca già
in cantiere) che oggi irrompe rumoreggiando nel già denso caos dell’area a Sud
di Napoli. Pensaci, Giacomino! Quel
paesaggio desolato che ti induceva ad osservare il fiore del deserto oggi non è
altro che la perfetta opposizione a quello che vedevi, e sono passati meno di
duecento anni. È rimasto eterno però, il trainare ineluttabile dei tuoi versi suadenti
e dotti, che hodie – salendo sulle
montagne dove un po’ l’incontaminato resiste – di fronte ad una comune ginestra
costringe l’uomo a pensare a te: «ancor leva lo sguardo / sospettoso alla vetta
/ fatal». Il pessimismo cosmico è diventato una lagna improponibile e
inaccettabile in relazione ad una figura come quella di Leopardi. Spesso, ma
non si vuole incrociare troppo la poetica pirandelliana con l’epopea del
recanatese, lo scritto è una maschera fuorviante.
Oggi Recanati vive di
suggestioni. In via Giacomo Leopardi, 14 (impossibile adoperare la fantasia per
intitolare la strada su cui insiste la residenza del poeta) il Palazzo dove
nacque e abitò l’ideatore dello Zibaldone
domina maestoso la piazza, mentre nella costruzione di fronte, su una
targa, si rileggono il nome di Silvia che riecheggia nel sabato del villaggio.
Il Colle dell’Infinito rimane tacito alla sinistra del Palazzo, qualche
centinaia di metri più in là. Ma entrare in Palazzo Leopardi significa
scoprire, o almeno immaginare, gli istanti di vita quotidiana del poeta,
calcando gli stessi pavimenti. Ed ecco allora che il flusso vitalistico così
travisato – o forse non interpretato – dei suoi versi, si materializza negli
attimi di routine diligentemente
raccontati dagli operatori turistici. Pensaci, studioso! È esistito un Leopardi
che giocava con i nipoti, se li metteva in braccio, raccontava loro storie
sollecitato da quegli infantili e ignari approfittatori che hanno avuto il dono
di trovarsi di fronte uno zio affettuoso e intellettualmente produttivo.
Ironico, estroverso, anche un po’ narciso: è storia nota, anche se nelle visite
guidate a Palazzo lo raccontano ancora, che il famoso ritratto fece
letteralmente andare ai matti il povero pittore Ferrazzi, che nel 1820
ricevette la committenza per l’opera. E come non figurarsi, vista la fisionomia
degli interni del primo piano del Palazzo, lo scrittoio volante del poeta che
si spostava insieme al sole, dalla mattina alla sera, per avere una luce sempre
viva e scrivere, lungo il corridoio, finestra dopo finestra.
Su Giacomo
Leopardi si sono fatte interminabili congetture riguardo le malattie che lo
attanagliavano. Quella principale, però, è forse stata tirata fuori,
decontestualizzata, recentemente e risulta più credibile al cospetto della
travagliata (e breve) esistenza del recanatese: l’avidità di possedere e
consultare libri. Gli oltre 20.000 volumi che Monaldo aveva raccolto rappresentarono
una fonte incommensurabile per la cultura di Leopardi, e ancora quella
biblioteca rimane uno scrigno prezioso e invidiabile, un dono del conte all’Italia
intera. Casa Leopardi è visitabile solo per qualche tratto, resta di proprietà
della famiglia e la camera del poeta è inaccessibile al pubblico. Ma il suo
scrittorio camminante, gli aneddoti del rapporto con i nipoti, l’immagine
allegra di un uomo a cui è stata appiccicata addosso l’etichetta del
“pessimista cosmico” forse sono piccoli mattoni che rendono giustizia, insieme
alla splendida e ineguagliabile cornice di Recanati, ad un poeta che oggi, a
distanza di qualche tempo, rimane uno dei pochi che hanno raccontato, in versi,
la vita, senza aver paura di affrontare il timore di esistere. Coraggioso
Leopardi, quindi, semplicemente un Giacomino pensante e consapevole, tutt’altro
che annebbiato, o sarebbe meglio dire travolto, dal pessimismo e dal male di
vivere. La ginestra brilla ancora, a guardar bene, dai balconi dei palazzi di
un Duemila spossato, sulle pendici del Vesuvio.