venerdì 6 gennaio 2017

IL TEMPO DEI RACCONTI: Un computer per Leopardi

Fuori dalla finestra, l’ora solare eseguiva ottusamente gli ordini, gettando un’ombra grigio-turchese sulle facciate delle palazzine già alle quattro del pomeriggio.
Ero assorto nella lettura del “pensiero del giardino”, i caratteri minuscoli disposti su due colonne, le pagine finissime e crepitanti di un’edizione integrale che aveva visto due esami, una tesi di laurea e qualche decilitro di pioggia filtrata da un buco nello zaino ai tempi dell’università. Sul tavolo alla mia sinistra, il computer portatile giaceva aperto con lo schermo nero, emettendo il delicato ronzio della modalità stand-by.
Arrivai alla fine del pensiero, cioè all'inizio della pagina 4177 dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, e come al solito quel giardino apparentemente felice ma dominato in realtà dalla violenza e dal male mi ricordò il quadro di Max Ernst, La ninfa Eco, con i suoi mostri, le sue piante velenose e quella luce malaticcia che riassumeva molto bene la tensione del primo Novecento. Nell'atto di stiracchiarmi, premetti con gomito uno dei tasti del PC, che si illuminò rivelando una pagina che avevo salvato sui Preferiti – salvavo praticamente qualsiasi cosa sui Preferiti; la mia lista dei Preferiti era più lunga di quella dei debiti di Paperino.
Si trattava di un articolo dal titolo: «Poesie scritte dai computer. Ora è possibile».
Ero stato indotto da Sabrina a cercarlo. Il venerdì della settimana precedente, alla fine dell’ultima ora di lezione, avevo palesato la minaccia: «La prossima volta iniziamo Leopardi». Il lamentoso mormorio che ne era seguito (complice anche la pessima acustica dell’aula) aveva permesso al recanatese di scalzare Petrarca al secondo posto della speciale classifica degli autori più osteggiati dai miei alunni (il primato lo deteneva saldamente Manzoni). Sabrina Fattorini, che quando scuoteva la testa confondeva i grandi occhi d’ambra con la sua frangetta e quei capelli lisci e ramati, forse ancora non sapeva di possedere lo stesso cognome di Teresa Fattorini, la Silvia dell’omonimo canto leopardiano. Rimettendo nella borsa il libro e l’astuccio dei trucchi, aveva esclamato: «Prof, ma ancora con Leopardi? Ormai le poesie le scrivono i computer!»
Non ero sicuro di aver colto il senso della battuta. Forse voleva fare un paragone tra la penna e la tastiera del PC? Appellarsi a una non meglio identificata “modernità” delle forme o, peggio ancora, dei contenuti? Per il momento ringraziavo il cielo che avesse detto «al computer» e non «al telefono». Poi mi era venuto il dubbio: esistono già computer in grado di scrivere poesie?
Un’accozzaglia di parole-chiave su Google, ed eccoli qui. Più di un computer. Programmi embrionali ma funzionanti. Nel 2014, ad esempio, in California era stato assemblato un computer che, dopo aver memorizzato una gran quantità di vocaboli, era in grado di organizzarli in composizioni che, oltre a rispettare le regole della grammatica e della sintassi, dessero una parvenza di originalità letteraria. Diversi esempi si potevano leggere su alcuni siti d’informatica:

A home transformed by the lightning the balanced alcoves smother this insatiable earth of a planet, Earth. They attacked it with mechanical horns because they love you, love, in fire and wind. You say, what is the time waiting for in its spring? I tell you it is waiting for your branch that flows, because you are a sweet-smelling diamond architecture that does not know why it grows.

Un anno dopo era uscita, col patrocinio di un prestigioso istituto tecnologico, un’intera antologia di poesie scritte senza l’ausilio umano. Già nel 2008, una casa editrice russa aveva pubblicato un romanzo scritto da un software che si era “ispirato” ad Anna Karenina, ma aveva adottato lo stile di Murakami. E ancora, un programmatore del MIT aveva scritto una poesia con l’aiuto di un computer che aveva “studiato” Shakespeare.
Passai una mezz'oretta a leggere una dozzina di esempi. Lessi di case di vetro in un bosco umido, di visi infranti come specchi, di passeggiate sull’orlo del precipizio di un bacio, di lupi sperduti. Alcune erano originali, molte piuttosto evocative, ma solo pochi versi mi sembrarono veramente efficaci. Il più delle volte erano associazioni compulsive di metafore e metonimie. Una volta avevo letto un articolo di Douglas Hofstadter sul progetto “Jumbo”, un programma informatico specializzato nella formazione di pseudo-parole inglesi secondo modalità che ricalcavano sia i processi biologici all'interno delle cellule, sia i fenomeni alla base di rapporti umani come l'attrazione, l'amicizia e l'amore. L'obiettivo era quello di comprendere meglio la natura di quei processi percepiti solo per «riconoscimento a livello cognitivo», in una manciata di millisecondi, e che vengono comunemente chiamati "pensiero". Le singole lettere venivano assemblate in parallelo da diversi sottoprogrammi (simili agli enzimi), che ne valutavano il diverso grado di "felicità", cioè di consonanza alle regole fonetiche dell'inglese. Si creavano così unità morfologiche sempre più complesse. Le strutture finali, di livello massimo, erano chiamati glom, e a seconda dell'efficacia delle associazioni delle lettere, sono più o meno felici. Ad esempio, la sillaba lick era più “felice” di lik, perché il nesso -ck- era migliore del semplice -k- in posizione finale.
Chissà se gli algoritmi di questi nuovi computer coronati d’alloro si erano ispirati a qualcosa di simile. In fondo, la letteratura è un atto felice anche quando è infelice, e questo me l’aveva insegnato proprio Leopardi. Ma sebbene si trattasse di cose che andavano ben oltre le mie competenze informatiche, mi sembrò di capire che le parole da collocare all'interno di un verso venivano scelte a caso. L’ultimo sito aperto mi propose, a fronte di due brevi poesie, di distinguere quale delle due fosse stata scritta da un computer e quale da un poeta realmente esistito, e pure famoso. Fallii miseramente. Scambiai William Blake per un ammasso di ferraglia e tale CPWalt789 per un poeta romantico. Sportivamente, cancellai la breve ma arguta filippica che mi apprestavo a pubblicare su Facebook e mi chiesi se non fosse il caso di tornare al mio Leopardi e preparare un esordio decoroso per il giorno dopo. Ripresi a sfogliare la mia edizione integrale, planando sulle Lettere e le Operette Morali con l’ombra della mia testa proiettata dalla luce sul tavolo. A un tratto mi sentivo stretto fra due poderose entità: da una parte, un’intelligenza artificiale che affrontava forse la sfida più impegnativa, quella della poesia, dopo aver camminato su Marte e avere imparato a giocare a scacchi. Dall'altra, la natura stupefacente e meravigliosa dell’autore che mi apprestavo a spiegare ai miei alunni, un ingegno che non aveva camminato su Marte ma aveva accarezzato la Luna, più
volte. Nel 2000, Deep Blue aveva battuto il campione mondiale di scacchi Garri Kasparov. Subito mi venne in mente il giovane Giacomo curvo su una scacchiera, incerto se dirigere lo sguardo sul gioco o su Gertrude Cassi Lazzari, la sua seducente cugina e avversaria. La sicurezza geometrica con cui i pezzi si muovevano contrastava con l’inquieto alternarsi delle caselle bianche e nere, di gioia e dolore, di leggerezza e gravità provocata da quel primo, sconvolgente amore. «La vita umana è un giuoco degli scacchi» sentenziavano i Sillografi nella terza delle Operette: regole razionali, combinazioni infinite ma calcolabili, e perciò infelici, inconsapevolmente tormentate. Deep Blue lo sapeva più di Kasparov, e Leopardi lo sapeva meglio di Deep Blue. Perché un computer può vivere nel re, nei pedoni e negli alfieri, ma Leopardi sapeva vivere nella scacchiera.
Quanto mi era durata da studente, e quanto ancora mi durava da insegnante l’ansia narcisistica di sapere tutto, la rincorsa metodica a un’esperienza che ancora non potevo avere. «Non siamo mica dei computer». Questa stupida frase aveva sempre la pretesa di risolvere tutto. Mai desiderato essere un computer – men che meno dopo aver letto quelle poesie. Era quando volevo diventare un bravo essere umano che mi rendevo maggiormente ridicolo. Per fortuna la mia percezione della realtà (una realtà dove chi sa tutto ha una possibilità, chi sa qualcosa anche, chi non sa niente pure, e solo io non ne avevo nessuna), si avvicinava un po' di più alla realtà del pianeta Terra durante le ore di lezione. Lì tutto sembrava incanalarsi sul suo giusto binario. Avevo un confronto con altre persone, portate dalla loro giovane età a stare attente anche quando sono svogliate. Così l’altro confronto, quello con me stesso, per qualche istante svaniva. E ora, nel buio di quell'ora solare, potevo assecondare per l’ennesima volta le simpatiche avances del mio complesso d’inferiorità o potevo provare a incanalare quelle due straordinarie potenze in un discorso costruttivo da proporre ai miei alunni. Così sistemai l’edizione integrale e il portatile fianco a fianco davanti a me e puntai i gomiti sul legno un po’ screpolato della mia scrivania, premendomi leggermente i pollici sulle palpebre chiuse.
Accogliere, interpretare e rielaborare milioni di informazioni in altrettanti atti creativi. La memoria interna di un computer e la biblioteca di casa Leopardi: due belle fonti di studio matto e disperatissimo, o «stupido gatto bisbeticissimo», come diceva mio figlio di tre anni. Intere galassie, in quei due ingegni. Quanto infinito può contenere un computer? E di quanto infinito necessita un ingegnere del MIT, o che so io, per dire a un computer: «Ora sei in grado di scrivere poesie»?
Allora mi vennero in mente quei quindici versi, un’«avventura dell’animo», forse la più grande sintesi fra immensità e intensità mai tentata da un essere umano. Sapevo come parlarne ai ragazzi, e allo stesso tempo non lo sapevo. Forse prima li avrei letti io, quei versi; poi avrei chiesto ad Alessandro e alla sua voce profonda e pulita, dal penultimo banco alla mia destra, di rileggerli. Gli avrei dato piena facoltà di scegliere il tono, le pause e gli accenti, di rispettare o meno gli enjambement, esortandolo solo a figurarsi la scena, guardando un colle e una siepe qualsiasi nella sua memoria. Sì, l’avrei lasciato fare, perché non avevo idea di come si “dovesse” leggere l’Infinito, ma sapevo che la sua potenza era tale da racchiudere in pochi istanti buona parte del senso che un ragazzo di quell'età dovrebbe poter trovare in Leopardi. L’infinito è il contrario del perfetto, dal latino «perfectus», concluso. Eppure l’Infinito di Leopardi era perfetto.
Io non sapevo definirlo altrimenti. Lo si poteva leggere in un minuto, ma nelle ore successive ti sembrava di continuare a leggerlo, come se quelle parole rilasciassero regolarmente dentro il tuo corpo degli enzimi vitali, come i glom di Hofstadter. Forse l’infinito non era altro che questo enzima. E allo stesso tempo la poesia è sempre una scelta, anche quando somiglia al più brutale degli sfoghi – questo dovevo metterlo in chiaro fin da subito, altrimenti spiegare le Avanguardie, in primavera, mi avrebbe messo in seria difficoltà. Nei circuiti di quei computer erano contenute milioni di parole, ma venivano estratte a caso. Il computer non sceglieva. «L’insaziabile terra del pianeta Terra»: un bel verso, ma casuale. Poteva nascere lui come miliardi di altri, e non avrebbe fatto differenza. Si dice che se il primo verso della Commedia avesse avuto «cammino» anziché «cammin», la vita di Dante sarebbe stata già a tre quarti invece che nel mezzo. È vero. Non è solo labor limae. E se in quei computer un bacino pressoché infinito era funzionale al finito; se la memoria era funzionale al dato; se il dizionario era funzionale alla parola, in Leopardi il finito, il colle e la siepe, era una continua rigenerazione dell’infinito, degli «interminati spazi», dei «sovrumani silenzi» e della «profondissima quiete». Scarabocchiai sulla prima pagina dello Zibaldone una manciata di parole-chiave: «luna scacchi infinito algoritmo poesie». Inclusi anche «Deep Blue». Il blu profondo è un colore molto leopardiano. Anzi, pensai, ora mi stampo queste poesie e domani faccio leggere pure queste, magari a Sara, ché una volta in corridoio l’ho sentita canticchiare Katy Perry niente male. Ah, ci metto anche i Sillografi o alcune pagine dello Zibaldone che prevedevano l’importanza dell’aeronautica nei secoli a venire, o la quarta strofa della Palinodia al marchese Gino Capponi:

Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
da Londra a Liverpool, rapido tanto
sarà, quant’altri immaginar non osa,
il cammino, anzi il volo…

Forse un giorno i computer non si sarebbero limitati a elaborare poesie, ma avrebbero davvero imparato quell'energia profonda e complessa che rende possibile un’avventura dell’animo. E allora la luna, la scacchiera e l’infinito sarebbero stati davvero alla loro portata. 
Fino ad allora, una risposta a Sabrina potevo dargliela io.

Momo