martedì 25 aprile 2017

RUBRICA: La Posta di Giacomo #4

A CARLO LEOPARDI - RECANATI
Roma 25 Novembre [1822]

Penry Williams-Vista in lontananza di San Pietro, Roma, 1840
Carlo mio. Se tu credi che quegli che ti scrive sia Giacomo tuo fratello, t'inganni assai, perchè questi è morto o tramortito, e in sua vece resta una persona che a stento si ricorda il suo nome. Credi, Carlo mio caro, che io son fuori di me, non già per la maraviglia, chè quando anche io vedessi il Demonio non mi maraviglierei: e delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perchè conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno. E perciò s'io ti dico d'aver quasi perduto la conoscenza di me stesso, non pensare nè alla maraviglia, nè al piacere, nè alla speranza, nè a veruna cosa lieta. Sappi, Carlo mio, che durante il viaggio ho sofferto il soffribile, come accade a chi viaggia a spese d'altri, e di tale che cerca per ogni verso e vuole i suoi più squisiti comodi, sieno o non sieno compatibili cogli altrui. Ma ciò non ostante, per tutto il viaggio ho goduto, e goduto assai, non d'altro che dello stesso soffrire, e della noncuranza di me, e del prendere ogni momento novissime e disparatissime abitudini. E mi restava pure quel filo di speranza, del quale io sono capace, che senza infiammare nè anche dilettare, pur basta a sostenere in vita. Ma giunto ch'io sono, e veduto questo orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile, e le altre spaventevoli qualità che regnano in questa casa; e trovatomi intieramente solo e nudo in mezzo ai miei parenti (benchè nulla mi manchi), ti giuro, Carlo mio, che la pazienza e la fiducia in me stesso, le quali per lunghissima esperienza m'erano sembrate insuperabili e inesauribili, non solamente sono state vinte, ma distrutte. Come inespertissimo delle strade, io non posso uscir di casa, nè recarmi in alcun luogo, nè restarvi, senza la compagnia di qualcuno della famiglia; e conseguentemente, per quanta forza io voglia fare in contrario, sono affatto obbligato a far la vita di casa Antici; quella vita la quale noi due, ragionando insieme, non sapevamo qual fosse, nè in che consistesse, nè come potesse reggersi, nè se fosse vita in alcun modo.
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l'altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l'esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo. In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia, e l'essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine, m'abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch'io non sono più buono da niente, non ispero più nulla, voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua. Fa leggere questa lettera al signor Padre, al quale io non so quello che mi scrivessi da Spoleto: perchè dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini ec. i quali s'erano informati dal Cameriere dell'esser mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta ec. ec. E un birbante di prete furbissimo ch'era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la dava a tutti gli altri: ma credetemi che alla mia prima risposta, cambiò tuono tutto d'un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima come tante pecore.
Senti, Carlo mio, se potessi esser con te, crederei di potere anche vivere, riprenderei un poco di lena e di coraggio, spererei qualche cosa, e avrei qualche ora di consolazione. In verità io non ho compagnia nessuna: ho perduto me stesso; e gli altri che mi circondano non potranno farmi compagnia in eterno. Scrivimi distesamente e ragguagliami a parte a parte dello stato dell'animo tuo, intorno al quale ho molti dubbi che mi straziano. Amami, per Dio. Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo più brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia. Ma tu scrivimi, e amami; e parlami assai assai di te e degli altri miei. Bacia per me la mano al signor Padre e alla Mamma, a' quali scriverò quest'altro ordinario, se ancora saprò scrivere. Salutami Paolina e Luigi e Don Vincenzo. In tutti i modi faremo animo: e l'assuefazione sottentrerà e rimedierà ogni cosa. Addio, caro ex carne mea. Addio.


La lettera al fratello Carlo del 25 novembre 1822 è la seconda che il nostro Giacomo Leopardi invia da Roma. La prima, indirizzata alla madre, era stata spedita un paio di giorni prima, all'arrivo presso il palazzo degli zii Antici: la brevità e l'essenzialità delle informazioni fornite, tuttavia, fa rassomigliare quest'ultima a quello che oggi sarebbe un messaggio inviato da un figlio ai propri genitori per tranquillizzarli (del tipo: «Sono arrivato, tutto ok, il viaggio è andato bene»), e la allontana dalla carica emotiva che invece trova una decisa espressione nella lettera a Carlo.
Giacomo non ama Roma. In una lettera alla sorella Paolina, datata 3 dicembre 1822, scrive che «Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d'essere spazi che contengano uomini». La Città Eterna diventa così luogo (o non-luogo?) dell'indifferenza, della noia, dell'inautenticità delle relazioni sociali, della vuotezza di tutti quei personaggi che popolano feste e salotti che pure Giacomo frequenta; tanto che la freddezza di una città così enorme agli occhi di un abitante della piccola Recanati sembra quasi annullare le facoltà sensibili ed emotive, e Giacomo, già incapace di provare meraviglia («ché quando anche io vedessi il Demonio non mi maraviglierei»), è ridotto «in tutto e per tutto una statua».
Quest'assenza di vita e, di contro, la necessità profonda di essere toccato nell'emotività, troveranno sfogo qualche mese più tardi, con le lacrime versate davanti al sepolcro di Torquato Tasso a Sant'Onofrio: esperienza che Giacomo racconta in una lettera ancora a Carlo (e che l'Amelio ha raccontato qui http://lamelio.blogspot.it/2017/03/impressioni-di-un-itinerario-letterario.html). Tuttavia, già questa prima espressione dell'epistolario romano offre una testimonianza precisa di quel desiderio d'amore e di vita che non ha mai smesso di animare un Giacomo assetato del mondo. Desiderio che quell'«Amami, per Dio» rivolto a Carlo esprime con i toni di un'arrabbiata preghiera.

Un poscritto: per un quadro più completo dell'epistolario come testimonianza dell'esperienza romana di Giacomo, si consiglia la lettura di L. Felici, Lettere da Roma 1822-1823, in Id., La luna nel cortile, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 111-140. Occasione per ricordare il da poco scomparso maestro Lucio Felici.

Il Pastore Errante