mercoledì 22 marzo 2017

Impressioni di un itinerario letterario: Sant’Onofrio tra Tasso e Leopardi




Foto di Valentina Leone
 Prima di salutarci, perché non ci saremmo più viste per diversi mesi, decidemmo di sciogliere una di quelle promesse che avevamo stretto quando, per caso, ci eravamo trovate tutte a Roma. Era ormai quasi mezzogiorno e ci affrettavamo lungo la salita di Sant’Onofrio, rimasta la stessa percorsa da Giacomo Leopardi due secoli fa. La prospettiva confinava la chiesa nel fondo, stretta sui fianchi dai più recenti palazzi, mentre imprevisti alcuni scorci, ai lati della strada, lasciavano evadere lo sguardo oltre le poche foglie di edera resistite al gelo, verso le scale che precipitavano fino al fiume. Per un momento, avanzando, l’illusione ottica ci aveva fatto temere di scorgere ancora una volta il cancello chiuso, come se la mente tentasse di ingannarsi per prevenire una possibile delusione. Invece il cancello della chiesa di Sant’Onofrio era ancora timidamente dischiuso, forse per scoraggiare gli ultimi visitatori che come noi accorrevano poco prima dell’orario di chiusura. Fu bastante questo segno di malcelata accoglienza a scacciare lo spirito di invettiva, così insolito, che già prendeva piede nell’animo per denunciare le poche risorse destinate a un sito così importante, per di più un edificio ecclesiastico, aperto solo un paio di ore al giorno.

L’idea di un Tasso imprigionato nel luogo della sua sepoltura, dopo i sette anni trascorsi nella cella del Sant’Anna a Ferrara, così come si era presentata è venuta meno non appena la facciata della chiesa, vista dai ripidi gradini del sagrato, sembrava incombere sopra di noi con la sua architettura semplice e pulita. Un non so che di vago accompagnava i nostri passi diretti all’ingresso della chiesa, preceduto dalle lapidee parole scritte da Leopardi al fratello Carlo nella lettera del 20 febbraio 1823: «Venerdì 15 febbraio fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma».
Foto di Valentina Leone
Davanti a noi, superata la soglia, il rosso e le foglie d’oro degli affreschi campeggiavano sull’abside, l’altare era imbandito di un’armonia di colori non pretenziosa e accogliente. Fu naturale deviare sulla sinistra e guardare in alto, dove un dipinto ovale dal contrastato chiaroscuro ritraeva il volto maturo di Tasso e parole latine scolpite su una targa marmorea rammentavano la pietas del cardinale Bonifazio Bevilacqua, spinto ad onorare l’amato poeta con un epitaffio. Smarriti per non aver ritrovato la «piccolezza e la nudità» del sepolcro, gli occhi scivolarono giù lungo il profilo allungato di un tripode e in basso scorsero la lastra aderente al suolo nell’estremo angolo della chiesa, schiacciata da uno dei piedi di ferro battuto. La «gran folla di affetti» suscitata da quella scritta, «Ossa Torquati Tassi», ci colse alla sprovvista non lasciando un anelito per condividere tra noi quel momento di intenso sentire, tanto forte era apparso il «contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura».


Foto di Valentina Leone

Ecco che l’umiltà evocata da Leopardi, lungi dall’essere solo relativa alla esigua dimensione della lapide, si spiegava per essere il sepolcro humilis, vicino al terreno, accantonato in un luogo remoto e noncurante del passaggio invadente dei fedeli e dei turisti. «Ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti?», risuonava intanto l’eco della lettera leopardiana. Un viaggio transoceanico all’inizio dell’Ottocento equivaleva a mesi di navigazione, a un tempo lunghissimo eppure sacrificabile in cambio di un piacere lungo due minuti. A partire dall’estrema dilatazione spaziale dal continente americano all’Europa contrapposta a un minimo spostamento di lancette si andava componendo, ora non più astratta, l’opposizione binaria del pensiero leopardiano: «molti»/ «io»; «magnificenza»/ «piccolezza» e infine «falso»/ «vero».
All’esterno, complice il silenzio del chiostro, ritrovammo la profonda quiete agognata da Tasso dopo una vita di erranza sulla vetta del colle gianicolense inondato di luce, lì dove la folta schiera di alberi annosi si confondeva nell’orizzonte tra gli spruzzi d’acqua della fontana centrale. E noi, con il volto sfiorato da un sorriso, dominavamo con lo sguardo l’immensa distesa della città di Roma. 
Foto di Valentina Leone


Il genio del Tasso