mercoledì 22 marzo 2017

La potenza di un “fiore giallo”. L’eternità della Ginestra, il «frutto» di un poeta vitale e coraggioso: Giacomo Leopardi


«Perché la poesia non è il fiore sul vulcano», affermava convinto Giorgio Bassani. Ma il cratere vesuviano dei primi anni dell’Ottocento, quello che Leopardi scrutava dalla sua finestra, aveva intorno un deserto. Un fiore giallo sulle pendici di un vulcano, allora, poteva a pieno titolo diventare un insieme di versi devastante, può, adesso, scatenare poesia. Un’espressione del genere, con parole da scuola dell’infanzia come «fiore» e «giallo», se pronunciata in un contesto ufficiale, provocherebbe reazioni contrastanti. In realtà contiene tutte le contraddizioni che la poesia stessa porta inevitabilmente ed etimologicamente con sé. «Inventare», nella radice del termine poesia, spesso è cosa fattibile solo a seguito di un impulso. Ma il fiore giallo è un accostamento di due termini che anche un bambino può facilmente produrre. Dopo la divagazione alimentata dall’incipit provocatorio, è necessario squarciare il velo di Maya schopenhaueriano e svelare il segreto di Pulcinella (geograficamente si resta in zona) sulla denominazione scientifica del fiore di cui si dibatte. 

La Ginestra, poesia (e pianta) tanto cara a Leopardi, invade le montagne italiane dando quel tocco di colore giallognolo sempre attraente per gli occhi, risale al 1836 quando da Villa Ferrigni, a Torre del Greco, si godeva di un panorama diverso rispetto ad oggi. Il 2017 dà ragione a Bassani, ma il 1836 gli dà torto. La conurbazione che ha di fatto creato un’unica grande città metropolitana tra Torre Annunziata e Napoli, includendo Torre del Greco ed eliminando le campagne, ha cancellato ogni parvenza di natura. Il Vesuvio, però, domina ancora, seppur assediato, scolorito. Le ginestre spiccano di meno, ma restano presenti negli sparuti spazi lasciati alla terra – aiuole incolte - tra i palazzoni che si arrampicano sin sulle pendici di quel vulcano che costò la vita a Plinio il Vecchio. Giacomo Leopardi, dalla terrazza della sua camera gentilmente offertagli dal patriota Antonio Ranieri, nei suoi endecasillabi e settenari della Ginestra prova a dare un messaggio preciso – in trecentodiciassette versi – parlando di un paesaggio che oggi non si riconosce più in quelle evocazioni. L’unica cosa che si conferma è il profumo di un fiore giallo, che talvolta – timidamente – spunta e si può respirare ai margini della ferrovia (la prima in Italia, all’epoca già in cantiere) che oggi irrompe rumoreggiando nel già denso caos dell’area a Sud di Napoli. Pensaci, Giacomino! Quel paesaggio desolato che ti induceva ad osservare il fiore del deserto oggi non è altro che la perfetta opposizione a quello che vedevi, e sono passati meno di duecento anni. È rimasto eterno però, il trainare ineluttabile dei tuoi versi suadenti e dotti, che hodie – salendo sulle montagne dove un po’ l’incontaminato resiste – di fronte ad una comune ginestra costringe l’uomo a pensare a te: «ancor leva lo sguardo / sospettoso alla vetta / fatal». Il pessimismo cosmico è diventato una lagna improponibile e inaccettabile in relazione ad una figura come quella di Leopardi. Spesso, ma non si vuole incrociare troppo la poetica pirandelliana con l’epopea del recanatese, lo scritto è una maschera fuorviante. 
Oggi Recanati vive di suggestioni. In via Giacomo Leopardi, 14 (impossibile adoperare la fantasia per intitolare la strada su cui insiste la residenza del poeta) il Palazzo dove nacque e abitò l’ideatore dello Zibaldone domina maestoso la piazza, mentre nella costruzione di fronte, su una targa, si rileggono il nome di Silvia che riecheggia nel sabato del villaggio. Il Colle dell’Infinito rimane tacito alla sinistra del Palazzo, qualche centinaia di metri più in là. Ma entrare in Palazzo Leopardi significa scoprire, o almeno immaginare, gli istanti di vita quotidiana del poeta, calcando gli stessi pavimenti. Ed ecco allora che il flusso vitalistico così travisato – o forse non interpretato – dei suoi versi, si materializza negli attimi di routine diligentemente raccontati dagli operatori turistici. Pensaci, studioso! È esistito un Leopardi che giocava con i nipoti, se li metteva in braccio, raccontava loro storie sollecitato da quegli infantili e ignari approfittatori che hanno avuto il dono di trovarsi di fronte uno zio affettuoso e intellettualmente produttivo. Ironico, estroverso, anche un po’ narciso: è storia nota, anche se nelle visite guidate a Palazzo lo raccontano ancora, che il famoso ritratto fece letteralmente andare ai matti il povero pittore Ferrazzi, che nel 1820 ricevette la committenza per l’opera. E come non figurarsi, vista la fisionomia degli interni del primo piano del Palazzo, lo scrittoio volante del poeta che si spostava insieme al sole, dalla mattina alla sera, per avere una luce sempre viva e scrivere, lungo il corridoio, finestra dopo finestra. 
Su Giacomo Leopardi si sono fatte interminabili congetture riguardo le malattie che lo attanagliavano. Quella principale, però, è forse stata tirata fuori, decontestualizzata, recentemente e risulta più credibile al cospetto della travagliata (e breve) esistenza del recanatese: l’avidità di possedere e consultare libri. Gli oltre 20.000 volumi che Monaldo aveva raccolto rappresentarono una fonte incommensurabile per la cultura di Leopardi, e ancora quella biblioteca rimane uno scrigno prezioso e invidiabile, un dono del conte all’Italia intera. Casa Leopardi è visitabile solo per qualche tratto, resta di proprietà della famiglia e la camera del poeta è inaccessibile al pubblico. Ma il suo scrittorio camminante, gli aneddoti del rapporto con i nipoti, l’immagine allegra di un uomo a cui è stata appiccicata addosso l’etichetta del “pessimista cosmico” forse sono piccoli mattoni che rendono giustizia, insieme alla splendida e ineguagliabile cornice di Recanati, ad un poeta che oggi, a distanza di qualche tempo, rimane uno dei pochi che hanno raccontato, in versi, la vita, senza aver paura di affrontare il timore di esistere. Coraggioso Leopardi, quindi, semplicemente un Giacomino pensante e consapevole, tutt’altro che annebbiato, o sarebbe meglio dire travolto, dal pessimismo e dal male di vivere. La ginestra brilla ancora, a guardar bene, dai balconi dei palazzi di un Duemila spossato, sulle pendici del Vesuvio.

Machiavello